NINETTA PIERANGELI
Niente di vero
di Veronica Raimo
(Einaudi,2022)

Questo romanzo ha vinto lo Strega Giovani. Di cosa si tratta?
Un memoir, il cui patto col lettore è che tutto quello che il narratore racconta non si sa se è vero o finto. La finzione della finzione narrativa è accresciuta anche da notevoli contraddizioni nella caratterizzazione dei personaggi, per cui la madre professoressa in continua preoccupazione per la presenza di uomini libidinosi, “porta la gonna aperta fino al culo”. Il che sembrerebbe una svista dell’editor, ma non si sa, forse rientra nel “niente di vero”.
Il racconto autobiografico si trascina nei soliti ricordi di incomprensioni infantili, piccole manie familiari, adolescenza passata tra sesso e canne.

Non manca ciò che ci si aspetta oggi da una narrazione scritta da una persona di genere femminile. L’immancabile aborto, trattato con superficialità, senza dubbi né incertezze e presentato dalla protagonista con un vissuto rivendicante una sublime diversità da tutto ciò che ci si aspetta da una donna, soprattutto se ha quaranta anni, vicina al momento in cui l’orologio biologico segnerà il tempo di non poter più avere figli.
Già, perché la narratrice ha palesemente più di quarant’anni e in tutto il romanzo strizza gli occhi alla sua generazione, citando tutti i cult degli anni ’90, compreso lo Swatch. Da cui si deduce che, nonostante abbia vinto lo Strega Giovani, il target di questo romanzo non è certo giovanile.

L’idea di scrivere qualcosa che non ha niente di vero poteva essere un’idea divertente. Ma lo sviluppo della vicenda, per me, non lo è stata. L’ironia dell’autrice nei confronti dei piccoli drammi familiari è veramente troppo scontata e a buon mercato. Insomma, non fa ridere, non fa piangere. Ci si annoia. Purtroppo è lo Strega di turno e chi, come me, si occupa di narrativa, a volte pensa ancora che valga la pena di leggere un romanzo premiato.
L’operazione commerciale che c’è dietro è d’altronde completamente dichiarata nella postfazione, in cui si esplicita che l’espediente narrativo è ripreso da Annie Ernaux, premio Nobel di quest’anno, per cui, aggiungo, il racconto sull’aborto era d’obbligo.
Inchiniamoci alla moda di turno.
Però suggerirei: nel gioco della finzione narrativa autobiografica, in cui tutto è vero e tutto non lo è, si potrebbe immaginare che anche la madre della protagonista, accantonato il sogno di avere altri figli, abbia preso orgogliosamente e contro ogni convenzione religiosa e borghese, la decisione di abortire. La narrazione si arricchirebbe di nuove angolazioni allo specchio in cui la finta autrice del romanzo potrebbe guardarsi.
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