Le reali possibilità per uno scrittore esordiente di pubblicare il proprio libro
In questo post ‘PASSEGGIATE LETTERARIE: Quello che so di te’ è possibile riflettere su un modo personale di analizzare un testo che ci rende consapevoli di molteplici aspetti di un’opera letteraria. Forse uno scrittore esordiente potrebbe leggere con attenzione le analisi dell’autrice autorevole di codesta rubrica. Sono sicuro che un’attenta lettura può tornare utile per rivisitare il proprio manoscritto con una più accurata analisi. Un augurio cordiale a tutti gli esordiente per un successo letterario.
MARIA ROSA GIANNALIA
Quello che so di te
di Nadia Terranova



IL SENSO DELLA VITA
Un romanzo di Antonio De Martino

PASSEGGIATE LETTERARIE: Quello che so di te
Un romanzo biografico
Le attuali tendenze della letteratura contemporanea verso il romanzo biografico e autobiografico, non sempre rendono giustizia al talento di autrici e autori. La voglia di raccontare di sé o di altri, spesso familiari, si traduce in una sorta di narrazione ripetitiva e enfatica che poco ha da dire al pubblico dei lettori.
Questo mi pare essere il caso di un romanzo di cui desidero parlare in quanto, a mio avviso, rappresentativo di certa narrazione in verità piacevole alla lettura ma rivelatrice di troppa leggerezza alla riflessione.
Nel libro Quello che so di te, che arriva dopo alcuni altri bei suoi romanzi, l’autrice Nadia Terranova ci racconta della sua bisnonna di nome Venera, internata per undici giorni presso l’ospedale psichiatrico di Messina dedicato al benefattore e psichiatra Dott. Mandalari il cui nome ricorre di bocca in bocca tra gli abitanti di Messina quando questi vogliono indicare genericamente il luogo dove inviare gente di idee non proprio in linea con quelle altrui.
Venera è una donna mite, votata al ruolo di moglie e di madre che non ha esitato ad abbandonare le aspirazioni cui la sua indole la portava, per dedicarsi alla famiglia e al marito che ricambia il suo amore e la sua dedizione dopo averla sposata in seconde nozze.
Venera però, dopo la terza gravidanza, durante una fortuita caduta, perde la bambina che portava in grembo quando era già giunta alla fine della gestazione e per questo si chiude in un mutismo dal quale emergono solo rantoli e mugolii. Per questo motivo, il marito, preoccupato, la fa internare presso il manicomio di Messina da dove però viene dimessa undici giorni dopo con una certificazione di guarigione.
Questo è il fatto che fornisce all’io narrante – che, nella finzione letteraria, si presume essere la stessa autrice, visto che si tratta di una biografia familiare – il punto di partenza per indagare sulla propria famiglia confrontando ciò che è vero – la documentazione rilasciata dall’ospedale – e ciò che è affidato a quella che l’autrice chiama la Mitologia familiare alla quale contribuisce soprattutto una zia, venerabile custode dei ricordi di famiglia.
La narrazione procede per continui confronti e scarti e fornisce il materiale più consistente alla storia, fatta di intrecci tra i diversi piani temporali del presente, in cui la protagonista narrante si interroga sul suo stesso essere madre di una bambina piccola, sul rapporto con il marito e padre della bimba, e del passato con continue analessi in cui la famiglia viene alla ribalta attraverso quella Mitologia di cui sopra. Lo sfasamento tra ricordi e documenti che la protagonista ha ricercato con insistita determinazione, è molto grande e nulla infine risulta essere effettivamente certo: né la mitologia, né i sentimenti della protagonista né addirittura gli stessi documenti peraltro molto scarsi e generici. Il tutto alla ricerca di una verità. Ma qual è la verità in tutto questo marasma di incertezze e contraddizioni? Non si saprà mai, tutto rimane labile e incerto, come incerti sono i fondamenti della nostra vita.
La protagonista si immedesima nella bisnonna Venera e ne riesce a capire completamente l’angoscia durante la gravidanza in cui lei stessa inizierà il medesimo percorso dell’ava, vale a dire la gestazione e poi la nascita di una bambina. Questa è l’occasione che porge il destro alla protagonista per raccontarsi e raccontare il suo percorso verso la maternità.
“Nel mio sogno ricorrente non è l’unica bambina viva in mezzo ai fratelli morti né la nonna pazza che terrorizza le nipoti. È giovane, si stringe nel soprabito, non parla, non è spaventata e non spaventa. La prima volta che l’avevo sognata non mi ero svegliata piangendo, non avevo chiesto aiuto, non avevo raccontato di lei a mia madre né a mia nonna né alle mie zie. Era venuta a portare un segnale solo a me, così io, con le altre, mi ero cucita il muso – come in vita aveva fatto lei. Venera mi aveva premiata. Era tornata ancora e ancora, la sua compagnia era diventata confortevole ma sempre confinata al bosco notturno:”
E qui le digressioni verso il presente diventano centrali e quasi sommergono il filo della narrazione principale. Il percorso tortuoso e alternato procede attraverso anse narrative eccessive e spesso anche ridondanti.
C’è, in tutta questa ricerca, una scrittura eccessivamente declinata sull’emotività della protagonista. Quasi che lei si voglia confessare in un continuo fiume di parole che quanto più è abbondante tanto meno riesce a precisare. Questa scrittura non mi sembra del tutto convincente. L’impeto del confessarsi finisce col non segnare nessun passo, col non rimarcare alcun sentimento forte, col non essere universalizzante. Il lettore rimane spiazzato quando alla fine della lettura tira le somme su quanto il libro stesso abbia saputo trasmettergli. Rimangono solo sensazioni confuse. La stessa scrittura che dovrebbe essere molto fluida e scorrevole, talvolta si inceppa in alcuni piccoli segmenti di testo non del tutto chiari e fruibili sintatticamente:
Vicino allo straccio, sull’ingresso della stanza, ha lasciato un fermaglio con le conchiglie, Venera ricorda di averglielo visto sulla nuca, appena sotto il cappello. Non tocca mai gli oggetti delle altre, ma ha la forma di una freccia o di un talismano, punta una direzione: è lì che è andata Quella Ricca, e forse può andarci anche lei. Fuori, lontano. Intanto, con le piccole punte delle conchiglie, Venera inciderà altre tacche nel muro.
Indubbiamente c’è nell’opera l’intenzione di descrivere il caos della vita e dei sentimenti attraverso il caos stesso della scrittura che procede, come si è detto, con l’alternarsi dei piani temporali e attraverso i monologhi dell’io narrante che non analizzano né spiegano ma palesano la confusione emotiva. La ricerca di una qualche verità nel vissuto familiare, si infrange sullo scoglio dei ricordi fasulli e non riesce a venire a capo di nulla. Ma questa ricerca interiore della protagonista rimane a galleggiare in tutta la narrazione nel marasma dell’emotività senza diventare oggetto di riflessione profonda.
La scrittura tecnicamente è bella, la stessa alla quale l’autrice ci ha abituato negli altri suoi romanzi, ma in questo forse pecca di eccessivo barocchismo.
Per la nota biografica dell’autrice si rimanda a questo link:
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