
Un periodo fiorente per la poesia italiana è stato sicuramente il novecento, secolo nel quale sono emerse figure importanti nel panorama letterario del nostro paese. Da Umberto Saba a Eugenio Montale e ancora, da Vittorio Sereni per continuare poi con Giuseppe Ungaretti e tanti altri autori che hanno fatto la storia della poesia italiana. Artisti che hanno saputo interpretare natura e sentimenti umani con lo stesso riguardo dovuto all’amore per la vita, non tralasciando nulla, che non sia passato attraverso i loro acuti sensi percettivi. Mi soffermo tuttavia in questa nota, su Libero De Libero e sulle sue qualità di poeta, critico d’arte e narratore, a cui tra l’altro sono molto legato non solo perché mio conterraneo essendo come me originario di Fondi, ma soprattutto perché i suoi versi contengono tracce innegabili e inconfutabili che riconducono alle atmosfere vivide della sua terra, quella Fondana appunto, che egli evoca di continuo in un tessuto denso e appassionato.
Libero De Libero è nato come detto a Fondi nel 1906 e, tra i comuni di Ferentino e Alatri, due piccoli centri in provincia di Frosinone, ha compiuto gli studi classici. Successivamente, nel 1927, si è trasferito a Roma per frequentare i corsi universitari di giurisprudenza. La sua era una famiglia numerosa e mi piace ricordare quanto lui dichiarò, con spirito sincero e disarmante, nel corso di un’intervista rilasciata nel 1960: “Sono stato il solito ragazzo nutrito con schiaffi, fette di pane e libri d’ogni specie che, un giorno, scrive una poesia e se ne vergogna più che d’un grosso peccato, poi da giovane ci riprova e se ne vergogna di meno, ma da uomo ha continuato senza tanti scrupoli“. Ecco, questo fu il tono che il poeta adoperò per descrivere la sua adolescenza di provincia e da cui traspare quanto, tra l’altro, questa sua passione fosse così forte da superare ogni remora o incertezza. De Libero, frequenterà per un anno anche un convento seminario a sud di Roma con la promessa di farsi frate. Esperienza dalla quale nascerà tra l’altro, uno dei suoi romanzi di maggior successo: “Camera Oscura”, scritto nel 1950 e pubblicato due anni più tardi. La sua vasta bibliografia contiene svariate opere, ma io mi limito in questo spazio a mettere a fuoco la sua prima raccolta poetica intitolata “Soltizio”, con la quale esordì nei “Quaderni di Novissima” di Giuseppe Ungaretti nel 1934. In particolare, ho estratto una poesia che si chiama Girasole:
Girasole
Alla maniera campestre
dorme il pastore
sui fieni mietuti,
e gli è la mano sugli occhi
pudore del riposo.
A tepore di siepe
si pasce il calvo gregge
e l’altro che è in cielo rimira.
In girasole s’apre
il nuovo giorno del pastore.