Maria Rosa Giannalia
Quando la prosa si fa arte: Vincenzo Consolo, cesellatore della parola
Desidero aprire questa mia rubrica con un omaggio ad uno scrittore siciliano forse non tanto noto al grande pubblico dei lettori. Un po’ perché egli non amò mai i salotti letterari, un po’ perché la sua prosa non ha le caratteristiche del romanzo classico. Eppure è stato non solo un grande scrittore nel panorama letterario del novecento ma anche un eminente innovatore. La difficile arte della scrittura deve a questo scrittore molte di quelle innovazioni che lo pongono nel novero degli sperimentatori linguistici, quegli scrittori, cioè, che attraverso le forme particolari delle parole, delle frasi e delle strutture linguistiche, creano narrazioni sincretiche che sanno fondere insieme aspetti sensoriali diverse. Essendo siciliano, Vincenzo Consolo utilizza questa sua prima lingua fondendola e giustapponendola alla lingua italiana.
Prima di addentrarci all’interno del suo romanzo RETABLO, che io amo molto, dirò due parole sulla sua vita:
Vincenzo Consolo nasce a Sant’Agata di Militello in provincia di Messina nel 1933. Frequenta le scuole superiori a Messina ma alla fine del percorso si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università cattolica di Milano per insistenza da parte dei genitori che non volevano che il figlio frequentasse una facoltà per donne, come dicevano loro e come racconterà lo stesso scrittore. La conclusione degli studi universitari avviene però a Messina dove si laurea con una tesi sulla filosofia del diritto.
Si dedica , in Sicilia, all’attività di insegnamento presso le scuole agrarie dell’isola.
Due sono i suoi riferimenti culturali fin dall’inizio della sua attività letteraria: lo scrittore Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo, due personalità completamente diverse tra loro ma molto formative per Vincenzo Consolo che trarrà dal primo la passione per il romanzo e per il racconto della realtà storica , dal secondo la musicalità delle parole e l’amore per la poesia.
Nel 1968 si trasferisce a Milano dopo avere vinto un concorso alla Rai e in questa città rimane a lungo con frequenti spostamenti in Sicilia dove svolge attività giornalistica, in particolare per il quotidiano l’Ora di Palermo, poi soppresso.
Il suo primo libro di successo è nel 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio di argomento storico. Un anno dopo, nel 1977, Consolo diviene consulente editoriale della Einaudi per la narrativa italiana, insieme, tra gli altri, a Italo Calvino e Natalia Ginzburg.
Queste le sue opere principali: Retablo (1987 premio letterario Recalmare Leonardo Sciascia 1988), Nottetempo, casa per casa ( premio Strega,1992), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998), Di qua dal faro (2001). Tra i racconti: Le pietre di Pantalica (1988), Per un po’ d’erba ai limiti del feudo (in Narratori di Sicilia a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, 1967), Un giorno come gli altri (in Racconti italiani del Novecento a cura di E. Siciliano, 1983), il racconto teatrale Lunaria (1985), Catarsi (1989).
Vincenzo Consolo vince il premio Strega nel 1992 con il romanzo “Nottetempo, casa per casa”
Muore nel 2012 all’età di 78 anni a Milano.
La storia
Prima parte: oratorio
Il romanzo inizia con il racconto di Isidoro – servitore assunto da don Fabrizio Clerici, pittore e protagonista principale- che brevemente descrive la storia del suo innamoramento per Rosalia, donna che incontra per caso alla Kalsa, quartiere popolare di Palermo, e che alla fine del viaggio intrapreso al seguito di Clerici, va alla ricerca della sua donna amata e perduta. La ritrova ma solo rappresentata in una statua di gesso, opera d’arte magnifica dello scultore palermitano Serpotta. E quando chiede a questi conto e ragione della fanciulla che ha posato per lui, apprende una verità sconvolgente.
Seconda parte: peregrinazione
La seconda parte , la più lunga, è il racconto dell’aristocratico don Fabrizio.
Siamo nel 1700. L’aristocratico pittore Fabrizio Clerici, milanese, per sottrarsi alla sua passione senza futuro per donna Teresa Blasco, – una signora sua concittadina che frequenta i più importanti intellettuali della città di Milano – e persuaso alla riduzione alla razionalità dei suoi sentimenti, intraprende un viaggio in Sicilia per visitare l’isola e raffigurarne in disegni e pitture le numerosissime opere d’arte, in particolare dell’arte classica, per farne dono, al ritorno, alla donna da cui sta fuggendo.
Approdato al porto di Palermo, incontra Isidoro un ex frate, fuoriuscito dal convento per avere sottratto i proventi delle elemosine raccolte in seguito alla vendita delle bolle che il suo priore gli aveva affidato, per offrirli ad una fanciulla di cui si era follemente innamorato: Rosalia.
Poiché Isidoro è povero ed è alla ricerca di un lavoro, Fabrizio Clerici lo assume come suo criato e si fa accompagnare da lui per tutto il viaggio nell’isola.
Il viaggio è molto avventuroso. Inizia dalla città di Palermo che don Fabrizio percorre con Isidoro dal Cassaro morto(1) fino alla cattedrale, addobbata con i palchi dello spectaculo per i processi del Santo Uffizio, e si avvia verso Alcamo. Subito dopo avere lasciato la città di Alcamo e l’ospitalità barocca del suo feudatario, i due vengono derubati dai loro averi. Comincia così una serie di avventure, durante le quali i due incontrano uomini e cose, città meravigliose, povertà devastanti, ospitalità generose e pericoli incombenti. Un viaggio attraverso la parte occidentale dell’isola di Sicilia chiamata nel testo “Il vallo di Mazara” che porta don Fabrizio e il suo criato Isidoro a conoscere le vestigia di Segesta e Selinunte, le saline di Trapani col suo stagnone e l’isolotto di Mozia con le sue vestigia classiche. La narrazione si dipana attraverso il racconto di don Fabrizio che va annotando in una sorta di diario tutto ciò che lo impressiona e lo stupisce, al fine di offrire alla donna dalla quale è fuggito, Teresa Blasco, le raffigurazioni dei luoghi sia attraverso i disegni sia attraverso l’insieme dei sentimenti , pensieri, riflessioni, suggestioni che il viaggio, tutto di stampo settecentesco, gli ha procurato. Un viaggio che infine si rivela una vera e propria ricerca non di luoghi né di persone o cose ma della conoscenza dell’animo umano e della verità ultima che rappresenta lo scopo più alto di conoscenza.
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E’ la parte, finale prospiciente il mare, dell’attuale Corso Vittorio Emanuele, denominato Cassaro –kaszr-dagli arabi e rimasto tale nel dialetto siciliano. Il cassaro morto è quella parte del corso che un tempo era priva di negozi e quindi priva di traffici e molto silenziosa.
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Terza parte: Veritas
Il romanzo si conclude con l’ultima parte del trittico : la confessione di Rosalia, la donna amata da Isidoro, che infine svela la sua verità sul perché è scomparsa ed ha abbandonato l’amato Isidoro. Verità che è anche il leit-motiv, reiterato in quest’ultima parte, di tutto il romanzo ( Bella la verità che, tra l’altro, è anche un intercalare tipico del parlato siciliano nell’esposizione di un fatto accaduto realmente e che, in questo caso, Consolo riprende dall’uso popolare)
La struttura del romanzo
Questo romanzo di Consolo, così come il lettore può vedere consultando l’indice complessivo a fine narrazione, presenta una struttura rigorosa e complessa ad un tempo.
Rigorosa poiché è caratterizzata da una tripartizione narrativa in cui le tre parti – oratorio, peregrinazione ,veritas – non hanno la medesima durata. Si presentano quasi come tre parti in cui alla più estesa parte narrativa centrale (peregrinazione) fanno da pendant le altre due narrazioni più brevi ( oratorio e veritas), quasi una rappresentazione, tutta fatta di parole, del Retablo che dà il titolo all’opera.
In realtà la parola retablo ricorre più volte all’interno del romanzo a cominciare dalla prima avventura dei due viaggiatori ( Fabrizio e Isidoro) quando si imbattono, nella città di Alcamo, durante la festa della cittadina, in una rappresentazione barocca e fatua di attori atta a suscitare la meraviglia degli astanti:
“L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza
La stessa parola retablo fu il titolo che diede Leonardo Sciascia quando, letto il romanzo di Consolo, disse che quel libro era la rappresentazione di un miracolo perché accomunava, in un’unica opera, razionalità, impegno civile e lezione romantica, attraverso una scrittura sperimentale e innovativa.
Complessa perché la prima parte che dà origine alla narrazione , in realtà principia a partire dalla fine del viaggio intrapreso dal pittore Fabrizio Clerici che è il personaggio principale, ma lo fa per bocca di Isidoro , il primo personaggio ad entrare in scena, che ci parla subito di sé, della sua storia, del suo amore infinito per Rosalia, trovata in un bassofondo di Palermo e poi scomparsa misteriosamente e mai più ritrovata se non in effigie rappresentata in una statua dal Serpotta, grande artista amico di Fabrizio Clerici.
La narrazione, nella seconda parte, devia dal suo percorso precedente e ci presenta il personaggio principale- don Fabrizio- che narra del viaggio allontanandosi molto dalla prima narrazione di Isidoro in un percorso totalmente autonomo dalla prima parte.
Infine l’ultima parte – la terza (veritas) – cambia ulteriormente direzione rispetto alle prime due parti e dà spazio alla terza protagonista della storia, Rosalia, la quale, attraverso la sua propria voce, racconta la sua verità circa il rapporto con Isidoro e la sua stessa sparizione misteriosa.
Sostanzialmente, quindi, le tre parti del romanzo sono del tutto indipendenti l’una dall’altra. Sta al lettore trovare quel rapporto che lega i fatti e i personaggi. In realtà l’autore porge fin dal principio alcune spie narrative: queste appaiono fin dalle prime pagine dell’incipit dove vengono presentati sia Isidoro e Rosalia sia il pittore don Fabrizio, viaggiatore nella più classica tradizione settecentesca. Quest’ultimo infine si inserisce nella vicenda immediatamente in una specie di proemio introduttivo a tutti i fatti raccontati in seguito nel retablo narrativo.
La lingua, lo stile, i registri
La scrittura è l’assoluta novità di questo romanzo: si tratta di una sperimentazione linguistica che Vincenzo Consolo volle fare per una scelta personale di stile ma anche di ideologia sociale e politica. In diverse interviste che egli dà a proposito di questo suo romanzo, ma anche di tutti gli altri ( perché la sua scrittura è il senso stesso della sua narrazione in un unicuum inscindibile) dice che ha avuto due padri: il primo Leonardo Sciascia al quale deve il rigore della storia che è il tema fondamentale di tutti i suoi romanzi, il secondo è il poeta Lucio Piccolo dal quale apprende la musicalità della parola e del verso e l’intimo suono che le parole sono in grado di evocare insieme al sentimento. Non solo, ma Consolo prende le distanze, per quanto riguarda la prosa, dalla scrittura di Manzoni che definisce artificiale ( nel senso di: creata ad arte per contribuire all’unificazione linguistica degli italiani), per avvicinarsi molto di più alla scrittura di Pasolini che utilizza le forme dialettali ( la lingua spontanea e quindi reale del popolo) per veicolare i contenuti civili.
Consolo si allontana anche dalla sperimentazione linguistica del gruppo ’63 che ebbe sede proprio a Palermo e ritorna alla lingua italiana da Gadda a Meneghello, quella che attinge ai dialetti regionali. Pertanto egli sceglie di utilizzare una lingua particolare adattandola ai singoli parlanti, in questo caso barocca e aulica quando a parlare è don Fabrizio, o dialettale siciliana, quando a parlare sono Isidoro e Rosalia.
Tuttavia la lingua siciliana che Consolo usa è una lingua fatta di intarsi e innesti di parole del siciliano antico, sia letterario che colloquiale. Pertanto possiamo trovare accanto a abènto ( cfr. Cielo d’Alcamo), grascia, altre parole molto più vicine alla parlata popolare: zotta, cianciàne, m’attassò, , vanelle, cassaròta, ceràula, vastasate, pampillonia, arrasso arrasso, accattàvano, babbalùci etc.
In realtà Consolo riscopre i retaggi sepolti nel dialetto siciliano innestati nella lingua italiana. Per questo fu chiamato l’archeologo della lingua in quanto ricerca le parole antiche e nascoste del siciliano, le riesuma e le inserisce in una prosa armonica che si rifà ai versi di Lucio Piccolo.
Infatti, a ben vedere, si può osservare come la narrazione di Consolo contiene un ritmo interno fatto da assonanze, consonanze, rime interne e attinge alle figure retoriche di posizione, suono e significato della lingua. Tanto che leggendo anche silenziosamente il testo, i suoni della sua scrittura “cantano” nella mente del lettore. Per esempio l’anafora, ampiamente utilizzata in tutto il romanzo, contribuisce non solo a fissare con forza i concetti ma anche a creare una sorta di litania musicale che costringe il lettore a dare più attenzione al testo e serbarlo nella memoria. In questo senso anche gli elenchi di cose e nomi, tendono a raggiungere lo stesso effetto.
Questa tecnica artatamente ricercata da Consolo non è fine a se stessa ma è la metrica della memoria, perché, nel suo intendimento, la letteratura è memoria e deve anche recuperare la memoria linguistica. Quindi, dissimulando i versi a livello della prosa, l’autore, mentre lavora sulla lingua, va verso la storia. Il suo scopo è quello di forzare la storia per farle dire la verità che gli storici non raccontano, perché la sua storia è diversa da quella ufficiale. Egli rifugge dalla concezione meccanicistica della storia ( cfr. quella di Tomasi di Lampedusa che crede in un avvicendamento naturale delle classi sociali: alla nobiltà decaduta subentra la borghesia arricchita), a favore della responsabilità e attribuisce ai feudatari siciliani e alla loro accidia la nascita del fenomeno mafioso che principiò proprio con la nascita del potere dei gabelloti, così come si può vedere in altri suoi romanzi. Per questo Consolo più che il Gattopardo di T. di Lampedusa tiene presente I Vicerè di De Roberto.
La ricerca della verità: è questo il fine delle sue opere così come lo è sempre stato per il suo maestro e méntore Leonardo Sciascia. Ma ci sono tante strade per arrivare alla verità, quella di Consolo è affidata all’affabulazione, come in chiusura, nelle parole di Rosalia:
Ah, io mai, io mai! Far finire nell’odio e nel dolore il nostro amore. Fu per questo che scappai, ch’accettai questa parte dell’amante, questa figura della mantenuta. Bella, la verità. E ora che la sai, la verità, se la capisci, fatti saggio, Isidoro, ritorna virtuoso. Chiedi perdono al padre guardiano, rientra nel convento. Saperti ancora monaco mi dona contentezza. Monaco tu e monaca io, nel voto e nel ricordo del nostro grande amore. Addio, Isidoro, io parto, io parto. Addio. E per l’ultima volta, come quella notte: dolce, sangue mio.
In conclusione Consolo viene definito autore affascinante e ostico, ma è la lingua che usa, piegata alle esigenze del racconto della storia, che richiede questo tipo di tessitura del testo il quale, insieme alla sua funzione narrativa, assume anche il connotato di vera opera d’arte da godere con tutti i cinque sensi.
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Non conoscevo Vincenzo Consolo. Attraverso questo articolo che analizza con precisione la struttura non facile del testo, sono riuscito a comprenderne il filo conduttore che non è facile da individuare specie per chi, come me, non conosce la lingua siciliana. Mi propongo di leggere attentamente questo libro perché Consolo non può mancare nella lista degli scrittori siciliani che tanto amo.
Ho letto RETABLO qualche anno fa permettendomi di fare un viaggio unico nel mondo della parola e della lingua siciliana cesellata in modo stupendo dalla ricchezza culturale e dalla conoscenza storico-linguistica di CONSOLO.
L’incipit del mio commento si avvale del suggestivo pensiero di Tommaso Aramaico che dice: “Per quel che si svolge e per come è scritto, questo racconto è come un miracolo: il che, per altro esattamente si conviene alla parola “Retablo”, di solito i “retablos” in pittura rappresentano sequenze di fatti miracolosi”.
L’opera è ambientata nel Settecento e narra la fuga di Fabrizio Clerici, aristocratico pittore, da Milano e dalla sua amata donna Teresa per affrontare un viaggio pittoresco in Sicilia dove incontra casualmente il suo compagno di viaggio in frate Isidoro che, a causa della sua passione per la popolano Rosalia, ha perso tutto. Rosalia però, considerata un oggetto nel romanzo, a sorpresa permetterà la comprensione del Retablo.
Il diario del Clerici annota le bellezze della Sicilia e l’inestimabile valore delle opere classiche antiche.
Attraverso questo diario fa una lunga dichiarazione d’amore a donna Teresa con pacatezza e riflette sui rapporti che intercorrono tra vita e arte, tra menzogna e verità, tra il carattere tragico dell’esistenza e il desiderio di una pace interiore.
Sì contrastano le due personalità di Fabrizio e Isidoro perché il primo vuole sbarazzarsi di questo mondo e del caos che lo contraddistingue attraverso l’arte, la pittura e la scultura per vivere in una dimensione metafisica e liberarsi dal peso spazio-temporale e dalle passioni, mentre il secondo, abbandonata la vita monastica fatta di pace interiore, silenzio e fede, si fa travolgere dalla passione coinvolgendo corpo e ragione, realizzando in questo modo una diversa estasi per cui il confine tra passione e follia è inconsistente.
È impossibile tracciare una linea ben precisa tra realtà totalmente in contraddizione per ordine e grado quando la ricerca e lo scopo di Fabrizio Clerici si pongono dei quesiti tipo se è davvero possibile conoscere una realtà superiore dove domina una bellezza fredda e incontaminata o se é possibile vivere invece in una dimensione di dolore, follia e brutture senza la possibilità di godere nulla di splendente.
Arriva alla conclusione che dal caos del fieri, dall’intreccio delle passioni, dall’irrazionalita umana, dalle relazione basate sulla ferocia e dell’ingiustizia sociale scatta la molla della linfa vitale che crea le condizioni adatte per l’affermazione della verità, della bellezza e della quiete.
La vita ha più valore dell’arte perché questa ha bisogno del materiale che è la vita stessa e questa amara riflessione è frutto della decisione del Clerici di disfarsi di una statua di grande valore in un viaggio in mare quando si è corso il rischio che affondasse la barca.
“O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento poiché mi pare di toccare il cuore della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, di amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente……
Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore di estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare e incolto, più debole o sgraziato uomo. ”
Quando il protagonista dell’opera dedica alla propria amata, donna Teresa, il proprio diario in quel momento formula un augurio al suo “fedele e silenzioso confidente ” quello che possa materializzarsi e concretizzarsi attraverso il magnifico intreccio di svariati temi come il volto ambiguo della natura, l’amore, la morte, il viaggio, attraverso il quale si è imbarcato per conoscersi meglio.
Questo augurio viene esaudito perché questo libro il “Retablo ” non si può confondere con altre opere per la sua unicità di equilibrio e di miracolo in quanto possiede un’anima tutta sua; ma è anche un augurio tradito perché il numero esorbitante di altre opere lo ha fatto diventare un romanzo di nicchia per pochi lettori ed anche perché la maggior parte degli scritti che trattano le tematiche siciliane non sono grande letteratura e quindi non sanno cogliere la profondità della terra sicula, ma con i dovuti distinguo come scrittori del calibro di Sciascia e Bufalino.
Meritoria l’opera di riscoprire Consolo, di dare a nuovi lettori l’opportunità di conoscere uno degli scrittori italiani più importanti del novecento.
In occasione del decennale della morte abbiamo potuto constatare quanto Consolo fosse già dimenticato, come dagli scaffali delle librerie siano spariti i suoi libri.
Aggiungo qui il link al mio ricordo del decimo anniversario della morte
https://www.gingolph.it/2022/01/cose-mie/in-principio-fu-la-lingua-che-creo-il-mondo-ricordando-vincenzo-consolo-nel-decimo-anniversario-della-sua-morte/
Aggiungo pure il link ad una nostra iniziativa, quella di offrire una lettura ragionata ad alta voce proprio di Retablo
https://www.gingolph.it/2022/02/recensioni/retablo-della-magaria-dello-scangio-del-milagro-vincenzo-consolo-dipinge-un-romanzo-damore-e-di-viaggio-noi-lo-leggiamo-per-voi/
Il filmato della lettura ad alta voce si trova su YouTube, chi fosse interessato scriva al blog gli mando il link.