di NINETTA PIERANGELI

Virtù
Miscellanea di riflessioni della collana “Le belle parole”, volume a cura di Francesca Romana de’ Angelis.
Oggi ho letto una miscellanea di saggi e riflessioni, più o meno lunghe o brevi, da titolo “Virtù”, una delle belle parole a cui l’editore Studium ha voluto dedicare la sua collana.
Riassumendo e riprendendo il filo sparso tra le righe e gli autori, ho buttato giù questa lieve presentazione.
La virtù è un orizzonte che, per il filosofo McIntyre citato da De Angelis, , si è completamente chiuso dopo la fine di una concezione condivisa del bene comune, perché solo essa rappresenta il fondamento dell’amicizia (Leopardi) e non si può essere virtuosi in solitudine, riafferma Evelina Piscione. È il nostro secolo quello della competizione, ma è nella cooperazione che splende la virtù dell’uomo, dice Duccio Piovani.
Cosa è dunque la virtù? Ci aiuta a interrogarci questo libretto.
L’areté è la capacità di fare bene il proprio compito, sostiene classicamente Lorenzo Marone. E Carmelo Scavuzzo riprende il Convivio, nella definizione tomistica: Ciascuna cosa è virtuosa che fa quello a che ella è ordinata.
Ma è di nuovo Marone che mi ha colpito: le piante mettono tutta l’energia a farsi belle e così aiutano pure gli altri, perché dalla loro prosperità passa la fortuna di tutti.

Così la virtù delle piante e farsi belle. E qual è la fortuna degli altri? Guardare la bellezza delle piante. Così mi son detta che la virtù dell’uomo è guardare la bellezza perché così è fortunato ed è felice. Ed è essere belli. Il compito a cui siamo ordinati io lo vedo così: innaffiare il fiore che ciascuno di noi è. E poiché non possiamo essere felici da soli, la nostra virtù sarà di essere cespuglio.
La metafora del fiore e del cespuglio, dell’areté come realizzazione della bellezza e della felicità all’interno della comunità ci riporta direttamente nel cuore di un’etica aristotelica, come contraltare alla perdita della consapevolezza del quid specifico dell’essenza umana. Mi spiego: Luca Serianni con un’indagine lessicologica, scopre come attualmente il termine virtus lo troviamo ridotto alla virtù del burro o dell’extravergine. L’antropos a una dimensione schiacciato sulla mera necessità e felicità del mangiare e del consumare.
Ma se tanti, che hanno partecipato alla stesura di questo libro con i loro interventi, sono riusciti a ad aprire un orizzonte, forse vuol dire che la prospettiva dell’homo oeconomicus non è definitiva nella nostra cultura.
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