di Alessandro Baricco

di Ninetta Pierangeli, autore del post

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Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio si adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille
.”

51 giorni del decimo anno di guerra in 24 canti. Questa la guerra di Troia cantata da Omero nel poema Iliade, attraverso un’unica voce narrante: la sua, quella di un aedo elleno dell’VIII secolo a.v.

In 17 capitoli, Baricco racconta la stessa storia, anzi, la fa raccontare capitolo per capitolo a ognuno dei protagonisti, cominciando da Criseide, colei che fu graziata a restituita al padre, e finendo con Demòdoco, che nell’Iliade non compare, ma che racconta ai Feaci e a Ulisse, colui che ne fu l’inventore, dell’inganno del cavallo.

Riletta dopo molti anni, questa riscrittura del poema non cessa di affascinarmi. Il racconto in prima persona di coloro che in quella battaglia furono immersi, immersi nello Scamandro che del loro sangue si arrossò, è sempre dinamico e coinvolgente.

“L’Iliade è un monumento alla guerra”, “canta la bellezza della guerra”, scrive Baricco. Della guerra onora la bellezza e la poesia.

La poesia dei suoi ideali e dei suoi valori: l’onore, la forza, l’ira, la grandezza, il coraggio, la vendetta, il rispetto dei caduti.

Tutti gli uomini racconteranno per sempre la bellezza del morir combattendo, il valore di Ettore, domatore di cavalli e uccisore di Patroclo e della sua follia.

Ma in che consiste questa bellezza della guerra che affascina gli uomini?

Rileggendo l’Iliade, mi sembra che consista nel potere di sottrarre la vita a un altro uomo, diventando la mano del destino, quel  destino a cui “nessun uomo,una volta che è nato, può sfuggire”. La bellezza  della guerra appare il fascino della vita che si nutre della vita di un altro, si impossessa delle armi del caduto e con esse della sua forza stessa, della sua anima, del suo ”daimon”.

La tristezza è il destino di questi eroi, è per questa tristezza che le loro “vite saranno cantate da tutti gli uomini che verranno”.

Esiste dunque una bellezza, una grandezza della tristezza, che è propria degli antichi eroi.

Ma nel poema sono presenti anche altri valori di quell’antica società: l’ospitalità, la pietà verso gli déi, gli affetti familiari. Quelli che Baricco considera valori femminili, i valori di cui all’epoca erano portatrici le donne. Una cultura degli affetti, della cura, dei sentimenti. Sottomessa però, e opposta, a quella maschile.

Mi sono domandata se questa cultura maschile guerriera sia una specificità dei popoli indoeuropei o se sia esistita ed esista anche fra altre popolazioni. Alcuni storici dicono che prima della venuta degli Indoeuropei, nel Mediterraneo, prosperasse una società matristica e matrilineare, di indole e propensione pacifica. Ahimè, di questa società abbiamo pochissime testimonianze, qualcosa forse negli affreschi minoici, sopravvissuti a eruzioni e maremoti. 

Invece la società che invoca la guerra e la vive con tragica bellezza  non è scomparsa. “La guerra: sola igiene del mondo”. Sebbene il paragone Marinetti – Omero sia incongruo e paradossale, rende sempre attuale la domanda: “ Che cosa rende affascinante la guerra agli uomini?”

Baricco termina la sua riscrittura, affermando: “Riusciremo, prima o poi, a portar via Achille da quella micidiale guerra. E non saranno la paura o l’orrore a riportarlo a casa. Sarà una qualche diversa, bellezza, più accecante della sua, e infinitamente più mite.”

Baricco afferma con certezza che questa bellezza verrà, ma non ci dice dove, non ci dice quando.

Chi ci farà conoscere questa bellezza dunque? È la domanda aperta da questo finale.

Forse vuole sottintendere che saranno le donne? In una società non più patriarcale?  Eppure mi dico: non sono loro a partorire ed educare gli uomini? Nel poema, la madre, Teti, non incoraggia e sostiene l’ira di Achille? Il poema più famoso al mondo è un inno all’ira. Da dove nasce l’ira nel cuore di Achille? Dal dolore dell’offesa di Agamennone. È dunque l’ira figlia del dolore, oso dire figlia del parto. E la tristezza non viene solo dagli uomini, ma dalle madri che li hanno partoriti nel dolore e nella paura, e spesso concepiti con violenza.

Resta allora la domanda: donde verrà questa bellezza accecante, mite e non irascibile?

Un’idea infine mi è venuta. Dal solo parto senza dolore, che un altro aedo circa 2000 anni dopo la stesura dell’Iliade, in un altro poema cantò:

“…State contenti, umane genti al quia”

“State contenti”, forse c’è dunque, oltre la bellezza della tristezza, quella che nasce dalla grandezza della guerra, anche la bellezza della contentezza che porta alla pace, ma questa grandezza non penso sarà per Achille, l’uomo nato dalla divina Teti, ma verrà da un altro, da altro parto nato.

State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.
(Purgatorio, canto III, vv. 37-39)

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