Le reali possibilità per uno scrittore esordiente di pubblicare il proprio libro
MARIA ROSA GIANNALIA
I Vicerè
di Federico De Roberto
I Vicerè
di Federico De Roberto
Nel panorama letterario del duemila che senso ha leggere il romanzo di Federico De Roberto “ I vicerè”? Abbiamo letto (e visto nella trasposizione filmica più volte), importanti libri che aprono scenari sulle narrazioni dell’ottocento, del novecento e del duemila: I Vicerè di Federico De Roberto, a Il Gattopardo di GiuseppeTomasi di Lampedusa e all’ultimo I leoni di Sicilia di Stefania Auci.
Questi tre romanzi, molto diversi tra di loro, hanno in comune la rappresentazione di una classe nobiliare che, nel primo caso viene indagata dal di dentro nel suo sistema di relazioni tra personaggi, nel secondo caso ci mostra tutto lo struggimento della consapevolezza dell’imminente sua fine attraverso un autorevole e decadente Principe di Salina, e nel terzo infine la decadenza di fatto di questa classe soppiantata dalla nascente borghesia ad opera dei Florio, primi nell’isola, ad avere segnato il passo verso l’emancipazione e l’affrancamento dalla nobiltà e dai suoi vani orgogli di casta.
In questo articolo io voglio invece mostrare l’opera del primo tra gli autori siciliani che indaga sulla nobiltà siciliana mostrandocela attraverso l’occhio di un maggiordomo, un uomo, quindi, che vive dentro quella società non facendone parte ma che, prendendone le distanze, ne sa illuminare e mettere a fuoco la piccolezza morale, il marciume, l’interesse individuale e lo sconfinato e ingiustificato orgoglio di casta ormai privo di ogni senso . Tutto ciò attraverso un’analisi condotta col bisturi dell’apparente obiettività che porta alla luce la causa prima dell’insipienza di quella nobiltà e forse anche del perché la Sicilia non si sia mai saputa affrancare dalle pastoie della prostrazione al potere.
Non possiamo leggere I Vicerè, con lo sguardo del lettore del terzo millennio. Possiamo , invece, considerare le vicende raccontate in questo libro alla luce dei centosettanta anni dalla proclamazione del Regno d’Italia e leggere le vicissitudini della nobile famiglia Uzeda, i vicerè, rappresentata senza veli da Federico De Roberto, facendo le nostre considerazioni, questo sì, alla luce del nostro presente.
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Leggere i Viceré come libro di piacere può essere infatti fuorviante, anche se è sempre il piacere di leggere che ogni buon lettore va cercando in un libro. In questo caso, il piacere va temperato e collocato nella contestualizzazione delle vicende narrate.
Detto ciò, possiamo senz’altro affermare che si tratta di un romanzo storico, non nel senso classico del termine, ma nel senso manzoniano: la storia fa da sfondo alle vicende dei personaggi che in questa narrazione sono inseriti non come i protagonisti che la storia la fanno ma come uomini che quella storia la vivono.
La grande famiglia dei principi Uzeda di Francalanza – appellati col soprannome di Vicerè che tanto soprannome non era, essendo stati, gli antenati, uomini di antica nobiltà spagnola, investiti del titolo direttamente dall’imperatore Carlo V, si ritrova a fare i conti a Catania intorno agli anni cinquanta dell’ottocento prima con l’impresa dei Mille e con tutta l’esperienza garibaldina e poi con la proclamazione dell’Unità d’Italia. E da qui a seguire fino al 1870 quando finalmente, approfittando dell’indebolimento dell’imperatore Napoleone III e della sua alleanza con il Papa, i piemontesi riescono a creare Roma capitale d’Italia dopo la breccia di Porta Pia.
I Vicerè all’interno di queste importanti vicende si comportano come sempre la loro casta si è comportata: fare di tutto per mantere salda la propria ricchezza e il proprio potere adeguandosi alle trasformazioni imposte dai tempi nuovi senza abbandonare le proprie caratteristiche di orgoglio di classe, di arroganza del potere, di voglia smisurata di rimanere a galla in ogni situazione nuova.
Il romanzo mette in evidenza queste caratteristiche fondamentali declinandole via via secondo la personalità di ogni personaggio.
Nel lungo incipit del romanzo il lettore viene introdotto non a caso nel magnifico scenario barocco del grandioso funerale apparecchiato per la morte della principessa Teresa Uzeda di Francalanza che, nel suo testamento ha prescritto rigorosamente le modalità di esecuzione delle proprie esequie inappuntabilmente eseguite dal figlio Giacomo erede del titolo di principe.
Subito dopo nel palazzo nobiliare ormai sede e proprietà della famiglia Uzeda, lo stesso lettore viene fatto partecipe della lettura testamentaria dove la principessa scontenta tutti imponendo ai familiari la sua feroce volontà anche da morta. E’ quasi una protasi da epopea questa di De Roberto attraverso la quale egli anticipa le caratteristiche succitate e introduce fin dalle prime pagine il lettore alla protervia e all’arroganza del potere di tutti gli Uzeda.
La narrazione procede attraverso ampie ed esaurienti descrizioni di azioni e di pensieri dei protagonisti tracciati a tutto tondo e nel contempo dimostra “di che lacrime grondi e di che sangue”, per parafrasare Foscolo, l’esercizio di quel potere che essi esercitano, determinati a conseguire le proprie finalità.
E così il principe Giacomo, il primogenito, costringerà la figlia Teresa ad un matrimonio di interesse senza sentimento, entrambi i figli ad accettare il suo secondo matrimonio con la cugina Graziella, il fratello Raimondo a renderglisi debitore indulgendo a tutti i suoi capricci di sperpero del patrimonio e incamerando a poco a poco la sua parte del patrimonio per lascito testamentario, a imporre la sua volontà su tutti i fratelli facendo in modo che il suo palazzo diventi il perno su cui gravitino tutte quelle presenze parentali allo scopo di averne il controllo.
L’unico che si sottrae alla sua volontà è il figlio Consalvo, ragazzo in gioventù scioperato e disinteressato al mantenimento del potere e all’accumulo, ma abile giocoliere nell’età adulta quando riuscirà, forte della sua dialettica e della sua stessa presenza fascinosa, ad inserirsi nella politica dell’Italia unita, passando davanti a tutti gli altri parenti fino a prendere il posto prima come assessore al municipio di Catania, poi come sindaco e infine come deputato del nuovo regno d’Italia con Roma capitale.
Ogni personaggio riesce a raggiungere il proprio obiettivo con tutti i mezzi consentiti dalla casta, anche se per la quasi totalità di essi l’obiettivo raggiunto costituirà la propria rovina, in una specie di contrappasso da inferno dantesco.
Non si salva nessuno, neppure Teresina, l’anima bella, disinteressata a tutto, vòlta a mettere sempre la pace in famiglia che ricuce le liti, smussa gli attriti, fa dono al fratello della ricchezza che il padre ha voluto lasciarle, dichiarandola erede al posto di Consalvo, figlio scapestrato e disubbidiente.
Ma anche Teresina è una perdente: nonostante la sua bontà non riesce ad affermare la sua volontà, non sposerà Giovannino di cui è molto innamorata e del quale, senza una sua diretta colpa, causerà il suicidio.
Questo è un romanzo di perdenti, come perdente è tutto il sud che non sa ribellarsi e non sa opporre alla famigerata piemontesizzazione dell’Italia, quella forza oppositiva e di mediazione diplomatica che avrebbe consentito a questa parte dell’Italia di contare successivamente nella storia con quelle timide premesse che pure al tempo dei Borboni, lentamente e faticosamente, stavano prendendo forma. La casta nobiliare legata fortemente ai Borboni, di cui i Vicerè sono l’emblema, non si adoperò minimamente in una azione politica di ampio respiro (e neanche di piccolo) per salvaguardare o creare un miglioramento economico delle classi più povere che se non erano a livello di servi della gleba, poco ci mancava. No. I Vicerè, come tutta la loro casta, diedero mano libera allo sfruttamento del sud senza opporsi, ma anzi accondiscendendo ad accordi economici senza i quali i piemontesi non avrebbero certamente potuto conquistare quella terra.
E questo è il succo di tutta la storia che, diversamente dal Manzoni, De Roberto vuole dimostrare al lettore: la piccolezza, la cialtroneria, la vigliaccheria di una casta ammantata di arroganza e presunzione e votata solo all’accumulo e al mantenimento della propria ricchezza. E’ questo il grande pessimismo che attraversa tutta la narrazione senza lasciare uno spiraglio di luce su questa parte di storia siciliana.
Nell’ottica di questo pessimismo De Roberto sceglie la forma più adatta: una prosa senza fronzoli, realistica, introducendo le forme sintattiche regionali del parlato siciliano attraverso un lessico che tutti i lettori possano capire e in questa forma linguistica sceglie di far parlare tutti: dal principe all’ultimo servo, modulando con inflessioni più dialettali il gergo degli umili. Perché la cultura non è cosa che interessa i nobili, anzi è da loro disprezzata come una forma “camuffata” di lavoro, quel lavoro che mai alcun nobile avrebbe potuto e dovuto praticare. Come si fa dovere di dimostrare don Ferdinando il babbeo che, dopo una vita da eremita nel suo podere Le Ghiande e le sue varie innovazioni agricole alla Bouvard e Pécuchet di Flaubert, passa da un fallimento all’altro e infine preferisce elemosinare piuttosto che lavorare.
E, poiché i comportamenti delle classi elevate, come spesso avviene in tutte le società, sono metro di paragone per le classi inferiori, anche i nascenti borghesi sentono di doversi piegare all’imitazione e alla reverenza per la classe nobiliare, come farà il povero avvocato Giulente, disprezzato dai suoi nobili parenti nonostante la sua competenza e cultura giuridica che viene tenuta in completo non cale.
Si nota in questo romanzo quanto poco spazio venga dato alle descrizioni del paesaggio naturale: tutte le azioni sono giocate e realizzate negli spazi interni, nei saloni riccamente addobbati del palazzo degli Uzeda o nelle case più modeste delle amanti o in quelle miserabili dei contadini.
Poco spazio De Roberto dà alle descrizioni naturalistiche e questo in linea con quasi tutti gli autori siciliani, anche contemporanei: le storie narrate sono prima di tutto storie di relazioni che si intrecciano fittamente per l’esercizio del potere, come in questo caso, o comunque per dare un senso alla vita, un senso al quale i siciliani mai hanno creduto ma che tuttavia pervicacemente ricercano per tutto il corso della propria esistenza.
Tutti gli scrittori siciliani non si sottraggono a questo comune sentire nel totale pessimismo di fondo che presiede alle loro narrazioni..
Breve nota biografica
Federico De Roberto nacque a Napoli nel 1861, da Federico quarantenne ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie col grado di maggiore[ e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.
Si trasferì con la famiglia a Catania nel 1870 (a nove anni) dopo la dolorosa perdita del padre, don Federico senior (non Ferdinando, come erroneamente riportato da più parti nei vecchi studi), ufficiale di Stato Maggiore di re Francesco II (nel 1873) travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. Da allora, salvo una lunga parentesi milanese e una più breve a Roma, Federico visse all’ombra gelosa della figura materna, donna Marianna Asmundo Ferrara, che con la sua personalità forte e possessiva esercitò un grande influsso sulla vita del figlio.
Nel 1881 avvenne il suo esordio letterario con il saggio Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato da Giannotta.
Fu presto conosciuto negli ambienti intellettuali per la sua attività di consulente editoriale, critico e giornalista.
Nel 1883 elaborò saggi sulla letteratura naturalista e verista, su Zola, Capuana, Flaubert e Matilde Serao, che raccolse in un volume per Giannotta, dal titolo Arabeschi.
Decisivo fu per De Roberto il trasferimento a Milano nel 1888, dove fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati e conobbe Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana, consolidando sempre più la sua amicizia con lo stesso Verga e con Capuana. Nel periodo del suo soggiorno milanese collaborò al Corriere della Sera e pubblicò diverse raccolte di novelle. Nel 1888 iniziò a collaborare con il Giornale di Sicilia, di Palermo, e avviò una serie di carteggi con un giovane studente in giurisprudenza, il palermitano Ferdinando Di Giorgi, mentre a Milano pubblicò le novelle psicologiche Documenti umani, edite da Treves.
Sempre nel periodo milanese, De Roberto concepì la trilogia di romanzi sui Principi Uzeda di Francalanza. Tale trilogia comprende:
L’illusione, pubblicato nel 1891;
I Viceré, pubblicato nel 1894, considerato il suo capolavoro, ma molto discusso al tempo dai suoi contemporanei e pubblicato nell’anno dello scandalo della Banca romana e della repressione nel sangue dei fasci siciliani. L’autore scruta e registra ventisette anni, dal 1855 al 1882;
L’Imperio, incompiuto, pubblicato postumo nel 1929.
Il 29 maggio del 1897, nel salotto milanese di casa Borromeo, Federico conobbe Ernesta Valle, con la quale intrecciò una intesa amorosa descritta in un intensissimo carteggio (quasi ottocento pezzi tra lettere, cartoline, biglietti) custodito presso la Biblioteca regionale di Catania. Il salotto milanese era meta dei più acclamati scrittori, giornalisti ed editori dell’epoca: tra le personalità di rilievo che lo frequentavano vi erano Eugenio Torelli Viollier, Luigi Albertini, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Ugo Ojetti, Arrigo Boito, Emilio e Giuseppe Treves.
La forte personalità possessiva della madre costrinse De Roberto a ritornare a Catania nel 1897. Il mancato successo dei Viceré lo segnò profondamente, tanto che si rinchiuse in se stesso e risiedette a Catania fino alla morte, salvo brevi viaggi nel continente. A Catania ebbe un incarico come bibliotecario e visse sostanzialmente appartato e deluso per l’insuccesso della sua opera narrativa. Indirizzò il suo lavoro intellettuale alla pubblicistica e alla critica; si ricordano gli studi su Giacomo Leopardi e soprattutto su Verga, che giudicò sempre suo maestro.
Nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale, fu interventista.
Nel luglio 1917, colpito da una flebite che gli impediva di camminare, ridusse i viaggi.
Nel 1919, in collaborazione con Verga, diede alle stampe un libretto d’opera. Alla morte del Verga, nel 1922, De Roberto riordinò in modo accurato le opere del grande scrittore suo conterraneo ed iniziò uno studio biografico e critico che però rimase interrotto per la sua prematura morte avvenuta a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio 1927 nella casa di via Etnea 221, a pochi passi dal Giardino Bellini.
Perfino in punto di morte De Roberto non ebbe adeguata considerazione, poiché la sua scomparsa fu oscurata da quella immediatamente successiva (27 luglio) di Matilde Serao. È sepolto nel Cimitero monumentale di Catania.
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Federico_De_Roberto#Biografia
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La disamina relativa all’opera del De Roberto, oltre ad essere completa, di ampio respiro e minuziosa, mi vede d’accordo sui comportamenti e il carattere superbamente protervio della classe nobiliare siciliana della seconda metà dell’ OTTOCENTO.
Se i nobili avessero preso in pugno la situazione politica e sociale postunitaria la Sicilia avrebbe avuto un’altra esistenza; erano gelosi della loro casta, dei loro possedimenti, dei privilegi ereditati per inerzia e non per merito perché loro non dovevano lavorare in quanto era una caratteristica plebea.
Se il principe Salina nel Gattopardo dimostra un’intelligenza più fine e una interessante cultura, anche lui però rimane inattivo dinanzi alla possibilità di contribuire ad un cambiamento e quindi ad un miglioramento.
Non sono innamorati della Sicilia, ma di sé stessi, delle loro ricchezze e dei propri onori come se tutto dovesse restare così in eterno perché loro sono gli dei che abitano una terra prediletta dal dio Sole.
Questo “sentiment” di avere del sangue nobile era diffuso fino ad alcuni decenni fa tra il popolo siciliano che ha cercato, araldicamente parlando, un’ origine aristocratica tanto che si dice che i Siciliani hanno comportamenti regali.
In merito al linguaggio dei vari personaggi mi rievoca la tecnica verghiana ripresa poi a distanza di tanto tempo da Camilleri.
Grazie Mariarosa per il bellissimo lavoro fatto e per aver regalato dei minuti di saggia cultura.
Rosetta Martorana.