MARIA ROSA GIANNALIA

Sharon e mia suocera-Se questa è vita
di Suad Amiry

La passeggiata di oggi ci conduce in un luogo al di fuori dell’Italia, in verità poco adatto alle passeggiate reali, quelle che rilassano e ci fanno godere della bellezza della natura.
Il libro che propongo ci porta a Ramallah in Palestina, da decenni teatro di continue lotte tra israeliani e palestinesi mai sopite, sempre turbolente e devastanti ma diventate quasi routine così come ce ne parla l’autrice di cui andremo a parlare: Suady Amiry, siriana per nascita ma Palestinese per scelta.

Qui una breve nota biografica:

Nata a Damasco da madre siriana e padre originario di Jaffa, Suady Amiry ha vissuto ad Amman, Beirut, Il Cairo; laureata alla Michigan University, si è specializza ad Edimburgo.
Dal 1981 vive in Palestina, a Ramallah, nella Cisgiordania, dove insegna presso l’università di Bir Zeit e dirige il Riwaq Centre for Architectural Conservation. Tra il 1991 e il 1993 ha fatto parte delle delegazioni palestinesi per la pace in Medio Oriente negli incontri in USA.
Ha all’attivo numerosi studi, pubblicazioni e cataloghi sull’architettura storica palestinese e si scopre scrittrice raccogliendo in un volume i diari che tiene durante l’assedio Israeliano al quartier generale di Arafat a Ramallah nel 2001 e 2002.
È nota al pubblico internazionale con l’opera Sharon e mia suocera (2003), tradotta in 11 lingue e con la quale ha vinto il premio Viareggio nel 2004.
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Suad_Amiry

Il titolo di questo libro è assai intrigante in quanto giustappone a una persona appartenente alla sfera familiare e intima dell’autrice nientemeno un nome molto rappresentativo della storia di Israele. Se il titolo contribuisce per un buon trenta per cento al successo di un libro, come dicono, questo titolo mi è parso molto azzeccato.
Si tratta di una storia autobiografica di Suad Amiry, l’autrice palestinese, che narra uno spaccato di vita durante l’occupazione e il coprifuoco imposto da Israele per quarantaquattro giorni a Ramallah, -la città palestinese occupata-, in seguito al quale la suocera dell’autrice, donna di novantuno anni, rimane isolata nella sua casa da dove è difficilissimo uscire a causa della presenza dei posti di blocco israeliani e da dove lei, la nuora, deve portarla via.
L’episodio porge il destro all’autrice per raccontare non la grande Storia del conflitto arabo-israeliano, ma la piccola storia quotidiana dei palestinesi costretti a vivere, dal ’48 in poi, in sottomissione, continuo assedio e stato di guerra che hanno costretto la popolazione a non avere più alcuna vita normale.
Ed è su questo concetto che ruota tutta la narrazione di Suad Amiry: il lettore può assistere a tutti gli episodi di soprusi grandi e piccoli attraverso le parole leggere e ironiche dell’autrice. I lettori sono introdotti subito nel vivo dei fatti attraverso l’episodio iniziale del cappuccino preparato dal marito a Suad stessa, svegliata di soprassalto alle quattro del mattino dal rumore dei carri armati israeliani che irrompono nel centro città, come avviene nelle operazioni di guerra.
Solo che questa guerra infinita, più o meno guerreggiata, si protrae da molto tempo perché un episodio così terribile possa essere considerato eccezionale dalla protagonista, la quale addirittura pretende di riaddormentarsi subito dopo avere bevuto il suo cappuccino.
Tutta la narrazione è percorsa da episodi che intrecciano la vita quotidiana con gli eventi bellici in un lasso di tempo che va dal 2001 al 2002 e, nella seconda parte, con alcuni flashback dei primi anni ottanta che consentono all’autrice di raccontare alcuni episodi riguardanti la sua famiglia e la perdita della casa di Jaffa.
La narrazione avrebbe potuto essere molto tragica e suscitare nei lettori sdegno, riprovazione, anche odio nei confronti di Israele che esercita un orribile predominio sui palestinesi privandoli perfino della quotidianità cui ognuno di noi ha diritto.
Invece qui l’autrice sceglie la leggerezza, a tratti l’umorismo, per sottolineare lo scarto esistente tra il desiderio della normalità e la situazione anormale in cui la sua gente è costretta a vivere.
Il tratto caratteristico di questo libro mi pare sia proprio la ricerca di normalità in una ordinaria quotidianità di cui quella popolazione è stata privata ormai da molti anni e che è divenuta tanto più preziosa quanto più si allontana la possibilità di essere realizzata.
La ricerca di quotidianità si rileva anche dalla scelta stilistica dell’autrice che, utilizzando degli intarsi linguistici del parlato, lasciati anche in traduzione, proietta i suoi lettori all’interno di quel mondo mediorientale che, altrimenti, potrebbe essere percepito diverso e lontano. E colpisce sicuramente una lettrice come me che scopre, attraverso queste espressioni, quanto il viaggio delle parole travalichi le frontiere e i confini facendomi riscoprire la matrice di significanti e significati di tante parole che da quella cultura sono passate al siciliano, mio dialetto amato, dove tuttora permangono nell’uso inconsapevole di noi parlanti. Alludo in particolare alla mia sorpresa nel leggere nel capitolo “ I miei vicini di casa”: La mia più grande ossessione…è un giorno o l’altro di investirne uno [dei bambini del vicinato] con la macchina “lasamahallah”… parola, questa, il cui suono è identico al siciliano ‘nsamahaddiu, come identico è anche il significato Dio non voglia, dove solo il nome Allah viene tradotto con la parola siciliana corrispondente ddiu e per il resto la pronuncia è la stessa persino nell’aspirata intervocalica.
Insomma, il libro l’ho letto scorrevolmente e con piacere.
Ma.
Ci sono alcune osservazioni che mi sento di fare e che non mi permettono di ritenere questo libro uno di quelli che mi rimangono nel cuore né che mi appassionano.
A mio avviso la storia, o meglio le storie raccontate, procedono per accumulo di segmenti narrativi, senza quella supervisione o revisione stilistica che richiede la letteratura. La stessa autrice confessa che si tratta di una serie di appunti da lei scritti duranti momenti diversi laddove alcuni episodi della sua vita di palestinese le sembravano notevoli e atti a rappresentare il dolore, il fastidio, l’arroganza dei nemici troppo a lungo sostenuti dalle forze internazionali a scapito della risoluzione dei problemi della Palestina. Cioè quella che è diventata dalla seconda metà del secolo scorso la questione palestinese, irrisolta e irrisolvibile, vista la mancanza di volontà da parte di Israele di delineare dei confini stabili, come l’autrice stessa dice in una intervista.
Manca, sempre a mio avviso, una unitarietà nel tessuto narrativo che potrebbe fare annoverare questo libro a pieno titolo tra le più importanti opere letterarie del nostro tempo.
Forse la scelta di parlare ad un gruppo molto ampio di lettori, rende la narrazione poco profonda e i personaggi appiattiti sullo sfondo: noi non sappiamo nulla dei personaggi minori che affiorano qui e là nella storia, ad eccezione, solo in piccoli tratti, della suocera che è la protagonista e il primum movens della storia stessa, della quale l’autrice dà pochi elementi – a parte la reiterazione dei suoi bisogni di normalità appunto – che la restituiscano viva e a tutto tondo nelle relazioni con l’autrice stessa, col figlio ( che pochissimo interviene) e con quella che immagino essere la badante.
Non so, questa è l’impressione che ho avuto, rinforzata del resto anche dalle stesse parole di Suad Amiry durante questa intervista :

Molti scrittori mi raccontano che soffrono molto nello scrivere e riscrivere; per me invece, se mi chiedi quali sono le cose più piacevoli della vita, ti rispondo: camminare nella natura, nuotare e scrivere. Per me si tratta di raccontare la storia che ho in mente. Se davanti a una storia pensiamo subito al lettore, partiamo già in perdita. Nel tempo ho scoperto una cosa grandiosa: che i lettori sono così intelligenti e così sensibili che sanno benissimo quando sei commossa, quando qualcosa ti tocca, quando parli dal profondo del cuore, rispetto a quando dici sciocchezze e non sei in vena di scrivere. È solo sotto questo aspetto che penso al lettore: una persona sensibile e intelligente che devo rispettare. Non importa che sia palestinese, italiano, arabo… Ma posso dirti che quando ho scritto Sharon e mia suocera, il mio primo libro, ero preoccupata che la comunità dicesse “ah, ma questa storia la conosciamo già, cosa c’è di nuovo?” Ma con mia grande sorpresa, la comunità che mi ha accolto e celebrato di più – oltre all’Italia, ovviamente – è la comunità palestinese di tutto il mondo. (intervista riportata da su www.Mangialibri.com articolo di Francesco Marilungo).

Io invece penso il contrario: che, cioè, l’autore debba pensare al lettore come destinatario delle proprie scritture e, come qualsiasi artista, sempre l’autore è bene che gli porga la sua storia in una forma letteraria, cioè rivisitata , limata e riproposta in modo che ogni tema affrontato possa essere recepito attraverso l’individualità e nello stesso tempo l’universalità che sono la cifra della letteratura stessa.

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