Trilogia della città di K

Le reali possibilità per uno scrittore esordiente di pubblicare il proprio libro

MARIA ROSA GIANNALIA

Trilogia della città di K
Di Agota Kristof

Trilogia della città di K

Di Agota Kristof

Questa settimana andremo ad occuparci di una scrittrice ungherese , Ágota Kristóf , il cui capolavoro La trilogia della città di K. scritto in tre momenti successivi, è ambientato in una regione che non viene mai nominata per tutto il tempo della narrazione ma che si evince essere un martoriato paese dell’Est Europa, forse la stessa Ungheria, sua terra d’origine, alla fine della seconda guerra mondiale, nel periodo in cui l’Armata Rossa riesce a liberare i territori dell’Est dai nazisti.
Si tratta di un romanzo complesso, la cui struttura tripartita, inganna il lettore con l’apparente linearità della narrazione e con l’uso di un registro linguistico semplicissimo e paratattico.
Ma solo dopo avere letto la trilogia al completo possiamo ricostruire la storia di Claus,il protagonista, e della sua città. Perché anche il titolo può fuorviare il lettore. A ben guardare, infatti, più che la trilogia della città, la narrazione si dipana attraverso le tre vite di Claus, o, come il lettore può intuire a fine lettura, di Klaus-Lucàs, uno dei due protagonisti principali del romanzo.

Bisogna precisare che l’autrice elegge come lingua della sua scrittura il francese, lingua che apprende nel momento in cui, insieme alla famiglia, abbandona l’Ungheria e si stabilisce definitivamente in Svizzera a Neuchâtel (v. biografia in calce all’articolo).
Il modo con cui l’autrice Ágota Kristóf intesse la narrazione dei fatti accaduti ai gemelli Lucàs e Claus si colloca a metà strada tra la realtà, l’invenzione, la psicologia del dramma dei protagonisti quando ancora sono bambini e dell’unico adolescente rimasto in scena a metà racconto, come ci racconta Lucàs.
Non è facile per il lettore ricostruire secondo un ordine temporale tutta la storia poiché, nella lettura, si rimane impigliati nelle trame vischiose dell’immaginazione del protagonista che inizia la narrazione con un noi preludente ad una visione duale dei fatti accaduti.

In realtà la trama del romanzo è costruita ritroso: nell’incipit entrano in scena due gemelli, piccoli, che vengono affidati dalla madre che vuole seguire il marito e padre dei due piccoli, alla nonna che essi non hanno mai conosciuto. Il contesto si intuisce essere quello della seconda guerra mondiale, verso la fine, quando i nazisti stanno per essere progressivamente scacciati dalle terre dell’est Europa che hanno occupato con la forza. Il lettore può solo intuire quale sia il teatro della narrazione, forse l’Ungheria, forse la Germania dell’est. Nel romanzo non viene fatto mai alcun nome ma solo indicata una piccola città, quella dove vive la nonna vecchia che ospita malvolentieri i due bambini, e la città più grande già liberata dai nazisti ad opera dei russi.
Questo è lo scenario. Ma quale storia si racconta dentro questo scenario?
Nella prima parte della trilogia è la prima persona plurale che racconta. Racconta di come i due fratellini riescono a sopravvivere sforzandosi di capire quali sono i modi che assicureranno loro la sopravvivenza in quella casa della nonna che non si cura di loro, che li fa lavorare per potere sfamarli e che, con la sua noncuranza e indifferenza fa maturare nei due bambini la consapevolezza di quanto la cattiveria e la crudeltà siano più funzionali per la sopravvivenza rispetto alla bontà e all’amore per il prossimo. In realtà i due ragazzini che vanno crescendo conoscono la cattiveria e i soprusi confrontandosi con i loro coetanei in un ambiente povero e degradato, ma essi imparano progressivamente e velocemente a porre un discrimine tra il giusto e l’ingiusto, tra la crudeltà necessaria alla difesa e la banalità del male del tutto gratuito.


Insomma i due acquisiscono una coscienza e si creano una risorsa: la scrittura. Acquistano con i soldi che guadagnano lavorando nell’orto della nonna e vendendone i frutti, l’occorrente per scrivere: penne, matite e un grande quaderno dove viene appuntata ogni azione personale e ogni fatto esterno affinché ne rimanga memoria. Questo nella prima parte della trilogia, la più discorsiva e anche la più lunga.
Nella seconda parte lo scenario cambia completamente: finita la guerra, la Kristof sembra volere raccontare del tentativo della riunione della famiglia. Ma le complicazioni delle vite individuali che hanno attraversato il tempo della guerra, sconvolgono ogni piano lineare e producono dei dispositivi drammatici che fanno andare avanti la storia tra ambiguità, apparente agnizione e continue disillusioni.
Sempre dal racconto dei gemelli emerge che i due genitori, separatamente e in tempi diversi, cercano di ricostituire la famiglia ma senza successo, anzi perdono la loro stessa vita che però produce l’effetto di mantenere in vita i due ragazzi permettendo addirittura ad uno di essi, Claus, di fuggire al di là della frontiera dove potrà ricrearsi una vita libera.


Nella terza parte della trilogia, l’unico protagonista è Lucàs il quale, dopo la morte della nonna, rimane da solo nella casa e nell’orto e continua a vivere con la competenza acquisita nel lavoro della terra e nella vendita dei prodotti. Lucàs soffre di una terribile solitudine. Tuttavia fa molti incontri durante questo cammino individuale: Yasmine con il suo piccolo figlioletto malaticcio Mathìas; il curato del paese; Clara una donna più grande di lui di cui egli si innamora; Peter; l’amico capo del partito (si intuisce sovietico) e infine Victor il libraio, entrambi suoi amici e benefattori per motivi diversi. Ma l’autrice scava all’interno della psicologia dei personaggi e in particolare in quella di Lucàs che non ha dimenticato il fratello e vive nella speranza di potere un giorno ricongiungersi a lui. La sua esistenza nel frattempo non è priva di sentimento: in modi diversi tra Lucàs e questi personaggi si costituiscono delle relazioni positive e affettuose. Ma tutte sono destinate a fallire e non per la mancanza di volontà di Lucàs ma per un ordine spontaneo e naturale delle cose che sovrasta, con la sua ineluttabilità, la volontà di tutti i personaggi. Pertanto, l’assenza che si determina già sul primo incipit del primo libro, continua a percorrere gli altri due libri. L’assenza insieme alla mancanza abita tutto il romanzo e costituisce il leit-motiv di tutta la narrazione dove impera sopra tutte le cose una grande, fortissima disperazione.

La Kristof sa come rendere tangibile per il lettore questo senso di disperazione che non può essere scansata nonostante tutti i tentativi che ogni personaggio con determinazione compie: vano è il tentativo della nonna di salvaguardare il suo futuro e quello dei bambini in primis, lei muore volontariamente – dopo un ictus invalidante dà le istruzioni ai nipoti di ucciderla -, Claus va via e non dà più notizie di sé, Peter scompare preso dalla sua vita di partito, Yasmine va via di casa verso la grande città lasciando il suo bambino a Lucàs che lo alleva come se fosse il suo proprio figlio. Ma anche lui, Mathias, si sente abbandonato e perde la fiducia nell’amore di Lucàs e si uccide, Clara va via anche lei dalla cittadina, Victor si disfa della cartolibreria che vende a Lucàs sottocosto e si allontana per andare a vivere con la sorella, unica parente che gli rimane. Ma anche questa sua scelta è votata all’insuccesso.
Su tutto impera la scrittura: il grande quaderno-simbolo dove viene annotato ogni episodio della vita dei gemelli prima e di Lucàs poi. Ma la scrittura è invenzione e come tale menzogna essa stessa. Forse memoria ma ingannevole. La tripartizione narrativa della città di K. crea il labirinto in cui il lettore perde la direzione e la capacità di trovare una rivelazione. E’ la metafora della scrittura come inganno che non fa progredire verso la linearità e la verità ma verso un aggrovigliarsi di fatti di cui è difficile trovare il senso. Colpisce infatti la capacità della Kristòf di aver saputo creare attraverso lo scarto tra la semplicità della paratassi del racconto e l’inconoscibile verità dei fatti, una visione labirintica e perturbante in cui racconto, invenzione, sogno si mescolano continuamente creando nel lettore un effetto di spaesamento. Spaesamento che è conseguenza dei luoghi senza nome: tale scelta della Kristòf contribuisce anche alla confusione delle identità.

Ne consegue che i personaggi navigano tutti in un fiume in piena, quello della vita che non dà scampo e sembra convogliare ciascuno verso il proprio doloroso destino. E finalmente al lettore viene svelato l’ultimo segreto che nel patto narrativo dell’incipit iniziale è del tutto assente ma che costituisce il dispositivo drammatico iniziale che dà l’avvio a tutta la storia: nulla è come sembra. Tutta la narrazione è bugiarda e fasulla ed è frutto solo del punto di vista dei due piccoli gemelli, anzi di uno solo dei due che inventa l’altro, e insieme il vero e l’immaginario si raccontano una realtà più funzionale alla loro sopravvivenza dell’uno rispetto al terribile dramma che è costretto a vivere nella famiglia di origine dove una situazione iniziale – non diciamo quale – fa deflagrare l’assetto familiare iniziale portando alla rovina adulti e bambini che si raccontano, come sanno, tutta un’altra storia.
La trilogia ha un andamento molto mosso in cui, attraverso il linguaggio scarno colloquiale-familiare dei bambini prima, dell’adolescente poi e dell’adulto alla fine, il lettore viene catapultato dentro le vicende narrate dove viene costretto a stare fino all’ultima pagina. La scrittura della Kristòf è assolutamente accattivante, priva di retorica, quasi dimessa e tuttavia potente. E’ con questa particolare scrittura che l’autrice affronta le tematiche complesse della guerra, dell’ingiustizia, del terrore, della crudeltà, del sopruso, ma anche dell’amore, della tenerezza che talvolta si annida sotto la scorza più ruvida dei personaggi, bambini compresi, della voglia di ciascuno di trovare il senso della propria vita insieme al proprio ubi consistam e infine però della delusione grandissima che si concretizza in questo romanzo nella perdita di tutto da parte di tutti.
Lucàs ritroverà il fratello Claus ma questi che, dopo cinquanta lunghi anni, ha pure cambiato il suo nome in Klaus, non lo vorrà riconoscere: troppi sconvolgimenti quel riconoscimento avrebbe apportato alla sua propria vita ormai inquadrata all’interno di una monotona quanto confortevole routine. E proprio per salvaguardare questa routine e questa miserevole sicurezza Claus porterà Lucàs a scegliere volontariamente la perdita anche di sé stesso.
E persino l’oggetto-simbolo della vita stessa di Lucàs, il fratello Klaus ha rinnegato: il famoso quaderno che entrambi avevano iniziato a scrivere nella finzione e che Lucàs da solo aveva poi portato avanti nella realtà per salvaguardare la memoria. Ma anche la memoria non ha un senso, come la vita stessa di tutti gli individui che compongono l’umanità. Quindi anche la memoria si perderà, sembra dirci l’autrice, precipitandoci tutti, donne e uomini, nella nostra propria eterna solitudine.
Maria Rosa Giannalia

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